martedì 6 aprile 2021

La carbonara di Fellini

https://www.arte.tv/it/videos/093029-015-A/carbonara-alla-fellini/?fbclid=IwAR1L5fM0aZmt3oML2XvC3zJBKKtouO-0HFJl9LfEe8bP2JDSUh2I_EcWAz4 

sabato 30 gennaio 2021

La dieta di papà

"Stare a dieta per lui era contro natura: gli si chiedeva di rinunciare a qualcosa di fondamentale, di avere fame, tutto il giorno e tutta la notte, soffrendo e riuscendo a pensare solo al cibo. 

Per questo decideva di trattenersi per le due sole ragioni che considerava degne di tale impresa: o perché era troppo grosso per girare o perché era troppo pesante per pilotare l’aereo. Diventava nervoso ancor prima di cominciarla, la dieta. 

Infatti, appena notavamo che nostra madre aveva preparato meno cibo del solito e lui polemizzava, noi figli alzavamo le antenne e, a turno, lanciavamo il grido d’aiuto: «Presto, dategli un panino!». L’unica dieta che abbia mai seguito con piacere si chiamava Scarsdale. Veniva dagli Stati Uniti ed era nota come dieta miracolosa, visto che prometteva ingenti perdite di peso in un brevissimo periodo di tempo. Inoltre, non era rigida sulle quantità: non richiedeva di pesare gli alimenti, ma anzi concedeva di mangiare in certi giorni cibi «a volontà», a volte la frutta, a volte la verdura, a volte la carne e così via. 

Papà interpretava quell’«a volontà» alla sua maniera: se era il turno della frutta, per esempio, mangiava magari sei arance, cinque mele, quattro banane e montagne di frutti di bosco. 

L’apoteosi la raggiungeva quando toccava alla carne: allora si impadroniva del piatto da portata dove mia madre aveva messo i dieci hamburger che avrebbero dovuto sfamare tutta la famiglia e, se lei tentava di frenarlo, ribatteva: «Leggi qua! Non vedi che c’è scritto “carne a volontà”? Sto seguendo la dieta alla lettera! Se hai fatto pochi hamburger preparane altri per i ragazzi». Era insaziabile, nella realtà come nei film. Ogni tentativo di farlo ragionare cadeva nel vuoto: continuava a ripetere che se il medico che aveva inventato la dieta Scarsdale aveva scritto «a volontà» un motivo ci sarà ben stato, e se non conosceva la sua, di volontà, peggio per lui! Nel 1986 Renato Pozzetto e Carlo Verdone recitarono in un film dedicato al fenomeno emergente delle cliniche dimagranti. Il titolo era Sette chili in sette giorni. Questi luoghi promettevano risultati spettacolari, per di più in contesti parecchio allettanti, e così anche mio padre decise di provare. Per una settimana il suo guru sarebbe stato un dottore tedesco, che assicurava di fargli perdere cinque chili in sette giorni. Si ricoverò (si fa per dire, visto l’ambiente alquanto lussuoso) insieme a un amico fissato con le diete. Al loro arrivo il dottore li sottopose a tutti gli esami di rito e diede loro appuntamento per la sera. Poiché erano arrivati nel pomeriggio e avevano fatto uno spuntino, mio padregiunse senza problemi all’ora di cena. Si sedette nella sala ristorante, così sfarzosa da far dubitare che tutto quel lusso dovesse far dimenticare la scarsità del cibo, e attese che i camerieri servissero anche a lui i piatti coperti da elegantissime cloche che vedeva recapitare agli altri tavoli. Era certo che le cloche celassero una fregatura: quella sera la fregatura era una soglioletta rinsecchita delle dimensioni di un’alice. Papà la lasciò nel piatto e, con una scusa, tornò in camera, uscì dalla finestra e, tecnicamente, evase dalla clinica per raggiungere un ristorantino che aveva adocchiato lungo la strada. Ordinò all’oste tutto il meglio che aveva e pagò un conto esorbitante, del quale andava fierissimo: alla faccia di tutte le diete del mondo!"

Dal libro di Cristiana Pedersoli: "Un gigante per papà"



 

lunedì 2 novembre 2020

Hitler era vegetariano?

 

Hitler era vegetariano?
Secondo Margot Woelk, sua assaggiatrice ufficiale dal 1942 al 1944, Hitler era vegetariano.[13] In un'intervista infatti riferisce :

«Tutto era vegetariano e tutto fatto da deliziosi ortaggi freschi, dagli asparagi al pepe ai fagioli con riso, fino alle insalate. Tutto era disposto su un piatto solo, così come voleva fosse servito. Non c’era assolutamente carne e non ricordo vi fosse anche del pesce.»

[14][15]

Lo stesso Hitler il 25 aprile 1942, come riportato nel libro Conversazioni di Hitler a Tavola, durante un pranzo presso la Cancelleria del Reich esalta il regime vegetariano e la sua salubrità rispetto al consumo della carne.[16]

Altre fonti testimoniano il contrario: Il biografo John Toland riporta che l'alimentazione di Hitler, quando era studente, consisteva in "latte, pasticci di carne e pane". Un altro suo famoso biografo, Robert Payne (The Life and Death of Adolf Hitler), afferma che quella del vegetarismo fu una deliberata montatura, ideata dalla propaganda nazista per dipingere Hitler come una figura pura e dedita al bene (probabilmente ispirandosi al Mahatma Gandhi). Payne scrive:

«L'ascetismo di Hitler aveva un ruolo importante nella sua immagine pubblica in Germania. Secondo una leggenda ampiamente diffusa non fumava, era astemio e non frequentava donne. Soltanto la prima affermazione era veritiera. Beveva spesso birra e vino, aveva una predilezione particolare per le salse a base carnea bavaresi e prese moglie… il suo ascetismo era una finzione inventata dal ministro della propaganda nazista Joseph Goebbels per enfatizzarne la dedizione totale, l'autocontrollo e la distanza che lo separava dagli altri uomini...»

Il professor Rynn Berry ha recensito The Heretics Feast (un libro che alimenta la leggenda di Hitler vegetariano) con queste parole:

«Mentre è vero che i medici di Hitler gli prescrissero una dieta vegetariana per curarne la flatulenza e un disturbo cronico dello stomaco, diversi tra i suoi biografi, come Albert Speer, Robert Payne, John Toland e altri, riportano la sua predilezione per salse a base di carne e carni trattate. Anche Spencer sostiene che Hitler divenne vegetariano soltanto a partire dal 1931: "Si potrebbe affermare che dal 1931 seguì una dieta vegetariana, ma la trasgrediva in alcune occasioni".»

Quando si suicidò nel bunker della Cancelleria nel 1945 aveva cinquantasei anni; sarebbe quindi stato vegetariano per quattordici anni. Dione Lucas, la donna che fu la sua cuoca personale ad Amburgo verso la fine degli anni trenta afferma nel suo libro Gourmet Cooking School Cookbook che il piatto preferito di Hitler – quello che richiedeva abitualmente – era il piccione farcito. "Non vorrei farvi passare la voglia di mangiarlo, ma potrebbe interessarvi sapere che il piccione farcito era in assoluto il piatto preferito del signor Hitler, che cenava spesso in quest'hotel". Si può quindi concludere che Hitler non sia stato tutta la vita vegetariano ma che lo divenne in età adulta nei primi anni del 1930.

martedì 25 giugno 2019

Bottura: «Io, salvato da mio figlio»


Bottura: «Io, salvato da mio figlio»

Lo chef: «È un ragazzo colpito da una rara sindrome genetica, mi insegna
i veri valori. La dote degli italiani è saper maneggiare l’irrazionalità»

«A volte non riconosco più il mio Paese. Persone che si azzuffano per un parcheggio. Risse al bar per il cappuccino. Una tensione pronta a esplodere in ogni momento. Giovani che non hanno fiducia in se stessi e nel futuro», dice lo chef Massimo Bottura. «Poi incontro gli allevatori, i contadini, i pescatori: gli eroi del nostro tempo. Mi rendo conto di essere seduto su secoli di tradizione, su un territorio unico al mondo; e posso fare come Ai Wei-Wei, che manda in pezzi un vaso di duemila anni, per poi ricostruirlo. Mi considerano un avanguardista; in realtà faccio la cucina più tradizionale che ci sia». Qualche dato oggettivo: quest’anno Massimo Bottura è stato designato il più grande cuoco del mondo. La rivista del New York Times, sotto il titolo «The Greats», annuncia le interviste a Michelle Obama, Lady Gaga, e a lui. In copertina c’è lui.

Gli inizi
«Mio padre commerciava petrolio. Una vita d’inferno. Ore a discutere per guadagnare una lira su un carico di cherosene. Sono l’ultimo di cinque figli: ingegneri, commercialisti. Io dovevo fare l’avvocato. Con papà fu una rottura insanabile. Mia madre capì che dovevo seguire le mie passioni: la musica, l’arte. La cucina. La prima trattoria l’ho comprata da un ex elettrauto, in campagna; mamma veniva a preparare le tagliatelle e le torte. Poi mi sono preso una pausa e sono andato a New York». «Un giorno entro a Soho al “Caffè di nonna”, un locale aperto da un italoamericano, Roy Costantini, un ex parrucchiere. Vedo che manca personale e mi offro: “Si comincia domani” è la risposta. Il giorno dopo, l’8 aprile 1993, al bancone trovo un’altra neoassunta, un’attrice dai capelli rossi che deve arrotondare i magri introiti del teatro: Lara. Ora è mia moglie. Abbiamo due figli, Alexa, che studia a Washington, e Charlie, che mi ha salvato». «È Charlie che mi aiuta a stare con i piedi per terra. Nostro figlio ha una sindrome genetica rarissima. Non sappiamo cosa sia. Disformismi, difficoltà di apprendimento. Passo dopo passo sta crescendo, sta imparando tante cose. Anche a fare i tortellini a mano, in un’associazione di Modena che si chiama appunto il Tortellante, dove le nonne insegnano ai ragazzini. Per anni ho sognato che al telefono mi dicesse: “Ciao papà, come stai?”. Ha fatto molto di più. Quando mi hanno proclamato il migliore al mondo, al telefono mi ha detto: “Papà, sarai anche il numero uno, ma per me sei sempre un gran babi”, il mio fessacchiotto. È Charlie che mi insegna ogni giorno i veri valori della vita».

La politica e l’Expo
«Il referendum è una questione culturale prima che politica. Se vince il No, mi viene voglia di mollare tutto e andare all’estero: ringrazio il mio Paese che mi ha dato moltissimo, chiudo e riapro a New York. Il punto non è Renzi, o Grillo. È la logica per cui “in Italia non si può fare”. Se passa questa logica, è finita. Purtroppo molti giovani si arrendono prima di combattere. Abbiamo detto no alle Olimpiadi, rinunciando a due miliardi di dollari del Cio. Se è per questo, volevamo dire no pure all’Expo». «Io all’Expo sono andato, a recuperare gli scarti e cucinarli. Un’esperienza bellissima. Ho voluto ripeterla a Rio, durante i Giochi. Sono venuti sia Alexa sia Charlie, che la sera girava a offrire hamburger ai bambini di strada. Abbiamo aperto un gigantesco ristorante per i poveri di Lapa, un quartiere dove i ragazzi girano con la pistola alla cintola. Volevamo fare cultura, non carità. Non regalare gli avanzi, ma insegnare ai giovani volontari brasiliani a recuperarli. Ho dovuto trovare la forza di violentarmi e mettermi a loro disposizione, non il contrario. Il giorno dell’inaugurazione non avevamo né acqua né luce né gas. Sono scappato e sono andato a farmi un tatuaggio sulla spalla destra. Eccolo qui: “No more excuses”; basta scuse. Al mio ritorno abbiamo trovato l’acqua tastando il muro con lo stetoscopio, è arrivato un camion con il generatore di corrente, abbiamo acceso i fornelli con le bombole a gas».

Il metodo
«Dovevo fare una carbonara per duemila persone, ma avevo bacon per due porzioni. L’ho tagliato a fettine sottilissime e le ho stese sulla teglia. Poi ho preso delle bucce di banana. Le ho sbollentate, grigliate, tostate in forno. Alla fine erano affumicate, croccanti. Le ho fatte a cubetti, ricoperte di un altro strato di bacon e rimesse in forno: il bacon si è sciolto; le bucce di banana parevano guanciale». Diranno che lei rifila ai poveri le bucce. «Applico la stessa idea qui nel mio ristorante: uno strato sottilissimo di porcini, e poi tuberi, radici, zucca, castagne: il ceviche d’autunno. E le lenticchie possono avere lo stesso sapore del caviale, anzi migliore, se cotte nel brodo d’anguilla». Il metodo Bottura è sintetizzato dall’opera di Joseph Beuys all’ingresso del ristorante: un limone, una spina, una lampadina. «Natura, tecnologia, poesia. La materia prima, la tecnica, la creatività. Come diceva Beuys: la rivoluzione siamo noi. Musica, arte, letteratura, filtrate da un cervello contemporaneo. I quadri possono diventare piatti, anche le combustioni di Burri, che traduco in cucina bruciando l’acqua di mare disidratata». La ricetta che la rappresenta meglio? «Forse le cinque consistenze di parmigiano. Un paesaggio masticabile. All’inizio le consistenze erano solo tre. Le ho inventate per Umberto Panini, il re delle figurine che aveva aperto una fattoria biologica, ora in mano ai figli. Mi disse: “Il piatto è ottimo, ma stai pensando a te stesso, non al parmigiano”. Così l’ho rifatto. Aveva ragione: la tecnica deve essere al servizio della materia prima, non del cuoco. Ora le consistenze sono cinque. Il parmigiano di 24 mesi diventa un demi-soufflé, quello di 30 una spuma, quello di 36 una salsa, quello di 40 una galletta croccante, quello di 50 una nebbia. È un piatto che restituisce il lento scorrere del tempo in Emilia. Come l’aceto balsamico, che abbiamo messo da parte nel 1981, e ora ha vinto la medaglia d’oro».

I cuochi in tv
«Il dolce che preferisco si chiama “Ops! Mi è caduta la crostata al limone”. Una crostata rotta è diventata un’icona della cucina internazionale. La ricostruzione perfetta dell’imperfezione. Come il nostro Sud: che è l’imperfezione assoluta, eppure è il posto più bello del mondo; perché un posto bello come la Valle dei Templi o come Capri non esiste in nessun altro Paese. Anche se tendiamo a dimenticarcelo». MasterChef? Hell’s Kitchen? «Non mi piacciono i talent. La cucina è un atto d’amore, è un lavoro intellettuale; non è una gara. In tv non vado volentieri. Troppo superficiale. Al limite la tv viene da me. Così Cracco ha portato i suoi concorrenti all’Ambrosiana di Milano, dove abbiamo un altro progetto sociale. Sono molto amico di Carlo». Anche se ha fatto la pubblicità alle patatine nei pacchetti? «Ha capito di aver sbagliato. Del resto, così ha salvato il ristorante. Non è facile per noi far quadrare i conti. Qui alla Francescana ho 45 dipendenti per 28 coperti. Ma non è un’azienda. È un laboratorio di idee, che genera conoscenza, quindi coscienza, quindi senso di responsabilità». Bottura, lo sa cosa dicono di lei, vero? «Certo. Dicono che sono pazzo». E lei cosa risponde? «Che saper maneggiare l’irrazionalità è la più grande dote di noi italiani».

19 novembre 2016
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