lunedì 2 novembre 2015

Vagone ristorante di Roland Barthes


Vagone ristorante

Il prezzo fisso della compagnia Cook procura, non tanto un nutrimento, quanto una filosofia. Il suo principio è una scommessa: il viaggiatore consuma nel cuore del viaggio tutto ciò che, costitutivamente, s’oppone al viaggio stesso. Il primo obiettivo è dunque quello di purificare il pasto da qualsiasi finalità propriamente nutritiva, di mascherare – con un complesso protocollo di attenzioni – la contingenza: quella, molto semplicemente, del mangiare in treno. Qui, ogni limitazione sembra produrre la libertà contraria, qualsiasi gesto è una smentita dei suoi limiti originari. Per esempio, lo spazio ristretto genera un’enorme quantità di biancheria: è tutto uno spreco di tovaglie e tovaglioli (che ricoprono anche i cestini del pane), di innumerevoli posate, come se non mancassero né spazio né il tempo per rimetterli in ordine, per lavarli.

Al di là della profusione, quel che ci viene proposto è il miraggio di una solidità: biancheria inamidata, posate massicce, ogni cosa tende a superare teatralmente il semplice utensile, attestando che ci troviamo ancora in una civiltà del succedaneo (di cui Sombart ha indicato l’origine nel primo capitalismo); mentre, per esempio, nella vita americana la fine dell’oggetto coincide con la sua rapida distruzione, la materialità non deve sopravvivere all’uso (motivo per cui lo si costruisce – croce e delizia – di carta). Nel lusso Cook, al contrario, gli oggetti massicci ci suggeriscono sempre che, nonostante le caratteristiche tipiche del viaggio (singolarità, anonimato), essi sono stati appena presi da un armadio imponente, le cui radici, come nel più profondo delle nostre campagne, si immergono nella terra.

Se per certi versi viene ricreata la dimensione domestica, per altri il tema ne viene eluso, aggirato, a vantaggio del suo sostituto mitico: il ristorante di lusso; distrutto il viaggio, o quanto meno sublimato, nel vagone ristorante non ritroviamo casa nostra, ma una festa, un’“uscita”, una domenica della vita. Le pulizie e la cucina sono prese in carico da uomini d’arte, i cui nomi rispettabili ci vengono rivelati dal menu (il capo squadra Bérard, il cuoco Couty); si presume che consumiamo i prodotti di un artigianato responsabile: tutto deve trionfare sull’anonimato naturale di una semplice fabbrica per mangiare. Ovviamente, anche il menu obbedisce a quella legge della soprannominazione che definisce la cucina di lusso; i piatti hanno nomi tanto più prestigiosi quanto più fuoriescono da posti oscuri, accompagnano periferie, stazioni di smistamento; è il trionfo della libertà sulla necessità: cosa c’è di più glorioso del mangiare filetti di sogliola Bragation traversando Laroche-Migennes? Nel vagone ristorante, nulla è senza nome: la cottura con l’acqua diventa fatalmente alla mugnaia, il saltato cocotte, il passato di fecola crema portoghese. Di più, quella che è funzionalmente una carne con verdure viene parcellizzata enfaticamente in tre nomi diversi, poiché da noi il lusso piccolo-borghese è sempre plurale (nei ristoranti popolari, invece, il piatto concentra il suo nome sulla carne, e le verdure sono semplice “contorno”). Il problema, allora, è di eludere la contingenza: quella del viaggio e quella del nutrimento: lo stile Cook è una varietà del genere barocco, una rappresentazione dell’inutile.

Ma ciò che fa la specialità del vagone ristorante è che questo universo disinteressato – la cui pomposità mira a liquidare pudicamente il banale obiettivo di “mangiare” – è subdolamente minato da quella stessa contingenza che pretendeva di espellere, di modo che il teatro che viviamo è un miscuglio di retorica e di naturalismo, di lusso segnalato e di pianificazione vissuta, di arte e di tecnica: in sintesi, il numero recupera maliziosamente l’individuo. Il viaggiatore è sottomesso al ritmo fatale del consumo, la cui unità è l’ondata; primo segno di un funzionalismo intensivo, tutte le operazioni di servizio vengono scomposte, e nessuna può cominciare se l’altra non è esaurita; il pasto diventa una sequenza di portate discontinue: ingeriamo, attendiamo, come ruminanti nella stalla, nutriti passivamente, in balia di una catena d’imbeccate che guardiani sudati si affrettano a ripartire con cura lungo un nastro trasportatore. Ci sono tredici ondate: gli aperitivi, l’ordinazione delle bevande, l’apertura delle bottiglie, le cinque portate, il pane (il quale, raffermo, plebeo, contrasta pietosamente con i piccoli panini iniziali), il caffè, i liquori, il conto, la cassa. È un processo inflessibile, al punto che l’oziosa scenografia finisce per manifestare quel che pretendeva graziosamente di sublimare: il riempimento metodico degli stomaci. Anche i minimi protocolli interni contribuiscono a restituire a quei bei nomi esotici il loro contenuto piattamente nutritivo: la sogliola Bragation, la gallinella arrosto e l’indivia alla mugnaia vengono ridotti al rango anonimo diporzioni già predisposte: il gesto nobilmente tornito col quale il cameriere estrae ciascuna di esse dagli appositi alloggiamenti – fingendo di scegliere con un profondo colpo di cucchiaio la parte migliore, ma raccattando la prima cosa che gli capita –, questo gesto antologico non riesce a riconvertire la razione in pietanza; e così, nonostante il suo nome festoso, la bombe glacée si manifesta essenzialmente come l’oggetto di un fornitura: si inserisce il coltello, la fetta cade sulla paletta, la paletta si sposta sopra il piatto, lascia cadere il suo contenuto, e poi il ciclo ricomincia secondo le migliori tecniche delle macchine perforatrici e trasportatrici.

Insomma, quel che è sorprendente nel ciclo Cook è la fatica di Sisifo necessaria per ricoprire d’un velo disinteressato l’implacabile materialità del mangiare in viaggio, è quella collusione bizzarra tra la geometricità delle limitazioni (spa­ziali, orarie) e il barocchismo della presentazione. Ma a venir pagato, molto probabilmente, è esattamente lo spettacolo di un simile sforzo: Cook ci fornisce i rudimenti di una dialettica, la prova di una contraddizione nella quale il viaggio è smentito senza cessare d’essere percepito: il pasto si installa all’interno di un movimento, il paesaggio scivola via lungo il vetro immobile, divenendo l’accessorio fugace del protocollo alimentare; attraverso il nutrimento, facciamo parte di un’immobilità importata. Così, ogni volta che l’uomo costruisce i suoi spostamenti, è per fornire loro la sovrastruttura di una casa; ogni volta che si distacca dalla terra, lo fa richiedendo a essa una cauzione: qualsiasi arte del viaggio ha come obiettivo l’illusione dell’immo­bilità: nel panico e nella delizia dello sradicamento, Cook vende lo spettacolo di una stabilità.



Wagon-restaurant, in "Lettres nouvelles", 18 marzo 1959.


Farley Grange e Robert Walker in "L'altro uomo", regia di Alfred Hitchcock, 1951

martedì 27 ottobre 2015

mercoledì 9 settembre 2015

“E tutta questa gente deve mangiare (...)”. Ennio Flaiano

“E tutta questa gente deve mangiare, far l'amore, litigare, desiderare.”
Ennio Flaiano, Diario degli errori, 1976. Appunto del 1970

giovedì 27 agosto 2015

"L’odore di un buon ragù lo userei anche come dopobarba".
Ugo Tognazzi

martedì 18 agosto 2015


“Nel 1919, prendo in moglie Jeanne Dupoix. Credo che sia l'anno della morte di Modigliani. Abitavamo in rue Campagne Première. C'era in quella strada allora una trattoriuccia, gestita da una donna anziana chiamata dai clienti la Mère Rosalie. Ai pasti, vi incontravo quasi ogni giorno Modigliani. Arrivava con la sua giovanissima donna, fasciata l'esile persona in una redingote dal lungo garbo, di velluto azzurro elettrico. Modigliani non mangiava quasi nulla, rimandava in cucina tre o quattro volte il suo piatto, o perché era troppo pieno o perché non voleva vedere nel suo piatto che la piccola cima di carne che avrebbe ingoiato. Non smetteva di disegnare la gente che era lì, quanto gli balenasse in mente, e lasciava sulla tavola quei pezzetti di disegni che poi furono venduti, penso, dalla proprietaria del locale.”

Giuseppe Ungaretti (dalle Note al suo Meridiano Vita di un uomo: Tutte le poesie)

giovedì 13 agosto 2015

@ 8.47

https://youtu.be/DjkGTFN-0p4

Leggere e mangiare

Divorare libri: una metafora singolare, che dà da pensare. In effetti, nessun mondo formale viene a tal punto gustato, ingerito, disgregato e assimilato come la prosa narrativa. Forse è davvero possibile paragonare l'atto del leggere e quello del mangiare. [...] E sono proprio i bambini a leggere sempre così: incorporando, non immedesimandosi.
Walter Benjamin, "Ombre corte" (Letteratura per l'infanzia)

martedì 11 agosto 2015

Maigret

- C’est pour casser la croûte?
Georges Simenon, La première enquête de Maigret

(...) si finisce per mangiare. Georges Simenon

In tutti i drammi di famiglia, si finisce per mangiare. Georges Simenon (Ricordi proibiti, 1940)

venerdì 7 agosto 2015

State attenti.

State attenti: la nave ormai è in mano al cuoco di bordo, e le parole che trasmette il megafono del comandante non riguardano più la rotta, ma quel che si mangerà domani.


Søren Kierkegaard, Stadi sul cammino della vita

mercoledì 5 agosto 2015

Ode al vino, Pablo Neruda


Ode al vino

Vino color del giorno,
vino color della notte,
vino con piedi di porpora
o sangue di topazio,
vino,
stellato figlio
della terra,
vino, liscio
come una spada d’oro,
morbido
come un disordinato velluto,
vino inchiocciolato
e sospeso,
amoroso,
marino,
non sei mai presente in una sola coppa,
in un canto, in un uomo,
sei corale, gregario,
e, quanto meno, scambievole.

A volte
ti nutri di ricordi
mortali,
sulla tua onda
andiamo di tomba in tomba,
tagliapietre del sepolcro gelato,
e piangiamo
lacrime passeggere,
ma
il tuo bel
vestito di primavera
è diverso,
il cuore monta ai rami,
il vento muove il giorno,
nulla rimane
nella tua anima immobile.
Il vino
muove la primavera,
cresce come una pianta di allegria,
cadono muri,
rocce,
si chiudono gli abissi,
nasce il canto.
Oh, tu, caraffa di vino, nel deserto
con la bella che amo,
disse il vecchio poeta.
Che la brocca di vino
al bacio dell’amore aggiunga il suo bacio

Amor mio, d’improvviso
il tuo fianco
è la curva colma
della coppa
il tuo petto è il grappolo,
la luce dell’alcol la tua chioma,
le uve i tuoi capezzoli,
il tuo ombelico sigillo puro
impresso sul tuo ventre di anfora,
e il tuo amore la cascata
di vino inestinguibile,
la chiarità che cade sui miei sensi,
lo splendore terrestre della vita.

Ma non soltanto amore,
bacio bruciante
e cuore bruciato,
tu sei, vino di vita,
ma
amicizia degli esseri, trasparenza,
coro di disciplina,
abbondanza di fiori.
Amo sulla tavola,
quando si conversa,
la luce di una bottiglia
di intelligente vino.
Lo bevano;
ricordino in ogni
goccia d’oro
o coppa di topazio
o cucchiaio di porpora
che l’autunno lavorò
fino a riempire di vino le anfore,e impari l’uomo oscuro,
nel cerimoniale del suo lavoro,
e ricordare la terra e i suoi doveri,
a diffondere il cantico del frutto.


(Pablo Neruda)

lunedì 27 luglio 2015

Una pagnotta ben cotta (...)

“Una pagnotta ben cotta - disse Antonia - con dentro tre o quattro belle fette di salame, o di stracchino, vale più di tutte le ostie della terra.”

Sebastiano Vassalli, “La chimera”

domenica 5 luglio 2015

Le uova affogate

“– Non dimenticherete almeno di portarmi le uova affogate in un piatto piano? – Soltanto i piatti piani erano adorni d'immagini, e la zia si divertiva ad ogni pasto a leggere la leggenda di quello che le era servito quel giorno. Si metteva gli occhiali, decifrava: «Alì Babà e i quaranta ladroni, Aladino o la lampada meravigliosa»… e diceva sorridendo: – Benissimo, benissimo.”
Marcel Proust, La strada di Swann (Alla ricerca del tempo perduto; traduzione di Natalia Ginzburg)

domenica 28 giugno 2015

domenica 14 giugno 2015

Famiglie a tavola, Natalia Ginzburg

Famiglie a tavola


Nella mia casa paterna, quand’ero ragazzina, a tavola, se io o i miei fratelli rovesciavamo il bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava: «Non fate malagrazie!»
Se inzuppavamo il pane nella salsa, gridava: « Non leccate i piatti! Non fate sbrodeghezzi! Non fate potacci!»
Sbrodeghezzi e potacci erano, per mio padre, anche i quadri moderni, che non poteva soffrire.
Diceva: «Voialtri non sapete stare a tavola! Non siete gente da portare nei loghi!»



Natalia Ginzburg, Lessico famigliare, Einaudi

venerdì 8 maggio 2015

- Quando ti sei accorto che mi piacevi?
- Subito. Quando ti ho domandato da mangiare.
(Ossessione - Luchino Visconti)

sabato 2 maggio 2015

Novalis

Il filosofo vive di problemi come l'uomo di cibi. Un problema insolubile è un cibo indigesto. Novalis (Friedrich von Hardenberg) Schloss Oberwiederstedt 1772 - Weißenfels 1801 Frammenti Fragmente, 1795-1800

martedì 14 aprile 2015

Con il Dio ignoto.

"A me piace spesso mangiare da solo. E non è un gesto puramente narcisistico. Io mangio col Dio ignoto." Giorgio Manganelli, "La penombra mentale"

mercoledì 8 aprile 2015

I desiderata di Giacomo

Un curioso autografo Leopardiano elenco dei 49 "DESIDERATA" Si tratta di una ordinata serie di piatti suggeriti da Giacomo Leopardi al cuoco di casa. Primi, secondi, contorni, dolci. Ingredienti: PASTA, riso, latte, verdure, burro uova, formaggi. In una lettera datata Catanzaro 10 novembre 1836, Alessandro Poerio esorta l'amico Antonio Ranieri ad adottare ogni precauzione per una più corretta alimentazione: si era nel periodo dell'epidemia colerica di Napoli. "Abbiti diligentissima cura di te e di Leopardi e cerca di divezzare il nostro amico dal latte, dalla frutta, dalle verdure, .."

martedì 3 marzo 2015

Elsa Morante amava il mare, Mozart e il gelato al mandarino. Le tre M, come diceva lei. Elsa ama mangiare e appena si siede al tavolo si getta sul cibo, sempre scelto con cura, con avidità di bambina. Ama i frutti di mare e il pesce che spesso sgranocchia con le mani, poco la carne, solo polli, che d’altronde, sostiene, sono così stupidi che desiderano essere mangiati. Lo dice anche Stendhal.

domenica 22 febbraio 2015

Cena, seria

"Verrò, ma deve essere una cena seria. Odio le persone che prendono i pasti alla leggera" Oscar Wilde

martedì 10 febbraio 2015

I cibi sconosciuti

“La sorpresa dei cibi sconosciuti eccitava l’avidità degli stomaci.” Gustave Flaubert

sabato 17 gennaio 2015

giovedì 15 gennaio 2015

Spaghetto! Gran consolatore di ogni pena.

Spaghetto! Gran consolatore di ogni pena. Più dell'amore. Soprattutto quando l'amore non ci sta. Da C'eravamo tanto amati di E. Scola.